martedì 28 aprile 2015

Lo stress e i suoi rimedi 3: Vie di fuga



LO STRESS E I SUOI RIMEDI 3: VIE DI FUGA

Nel primo articolo abbiamo mostrato i problema dello stress e alcuni suoi effetti. Nel secondo articolo abbiamo trattato le cause e gli effetti dello stress. Qui di seguito mostriamo alcune vie di fuga dallo stress. Un motto che potremmo mettere all’inizio della trattazione è il seguente: «È tempo di rallentare!».

     Dio ha stabilito momenti di riposo: La chiesa (nuovo patto) non è una nazione teocratica e quindi non si può applicare a essa la legge d’Israele (antico patto).[1] Nel Decalogo, la Costituzione di Israele, fu scritto: «Ricordati del giorno della cessazione [ebr. šabbat], per tenerlo speciale [lett. santo]. Sei giorni lavora e fa’ ogni opera tua; ma il settimo giorno è cessazione [ebr. šabbat] per l’Eterno, il Dio tuo. Non fare [in esso] lavoro alcuno, tu e tuo figlio e tua figlia, il tuo servo e la tua serva e il tuo bestiame e il forestiero presso di te, che [abita] dentro alle tue porte» (Esodo 20,8ss traduzione di Nicola Martella; cfr. Levitico 23,3.32). Poi seguì la motivazione, basata sull’analogia creazionale: «Infatti in sei giorni l’Eterno fece i cieli e la terra, il mare e tutto ciò che è in essi, ed egli cessò nel settimo giorno; perciò l’Eterno benedì il giorno della cessazione [ebr. šabbat] e lo rese speciale [lett. santificò]» (Esodo 20,11 traduzione di Nicola Martella; ciò non si trova più nella seconda versione del Decalogo; Dt 5,15 si riallaccia alla storia e al patto). [Per l’approfondimento si veda: «Il tempo dello šabbāt?»; «Il tempo dello šabbāt? Parliamone».]
     Al tempo della chiesa del primo secolo, invece, c’erano i cristiani giudei che si attenevano al sabato, mentre i cristiani gentili non seguivano un giorno particolare: «L’uno stima un giorno più d’un altro; l’altro stima tutti i giorni uguali; sia ciascuno pienamente convinto nella propria mente» (Rm 14,5).
     Nell’istituire i «tempi di cessazione» o sabati (quindi non solo quello settimanale), Dio aveva in mente il popolo del patto, Israele, che era allo stesso tempo popolo, nazione e compagine religiosa. Così facendo, Dio intendeva regolare i rapporti all’interno alla teocrazia che l’israelita aveva con il suo prossimo, la sua famiglia, i servi, gli stranieri e addirittura il suo bestiame. Data la pesante lotta per la sopravvivenza, Dio ingiunse all’israelita un ritmo settimanale, perché si riposasse (e permettesse il riposo) da tutte le preoccupazioni quotidiane, avesse tregua (e la permettesse agli altri) e curasse altri aspetti, che la pressione lavorativa impediva di curare (famiglia, devozione, amicizie, recupero psicofisico).
     Nonostante tale differenze fra l’antico e il nuovo patto (p.es. la chiesa non è una teocrazia né una nazione), dai comandamenti di Dio, dati a Israele mediante Mosè, possiamo attingere dei principi. Fin dai tempi remoti, Dio ha tracciato per coloro, che lo temono, una linea di condotta perché godano pienamente della vita, con momenti per lavorare e momenti per riposare. Oggigiorno c’è gente, che fa turni di lavoro sempre mutevoli, altra che lavora solo di notte, altra che lavora a cottimo o a fasi stagionali e così via. L’importante è che a tempi di pressione, seguano altri di rigenerazione psicofisica. Ogni cristiano è chiamato a consacrare del tempo al Signore, non per obbligo religioso ma per devozione personale, con gioia, per adorare il suo Dio e per riposarsi alla sua presenza. È evidente che i modi e le maniere sono differenti tra persona e persona e nelle diverse culture del mondo.

     Il bene globale: Per essere felici, il bene materiale (benessere) doveva accompagnarsi per gli antichi con il bene esistenziale (il ben essere). Questo è un bene olistico, ossia globale. Giobbe faceva notare ai suoi interlocutori quanto segue: «L’uno muore in mezzo al suo benessere, quando è pienamente tranquillo e felice, ha i secchi pieni di latte, e fresco il midollo dell’ossa. L’altro muore con l’amarezza nell’anima, senza aver mai gustato il bene» (Giobbe 21,23ss). Chi ama l’anima sua (= la sua vita, se stesso), acquista senno (Proverbi 19,8), sapienza (Pr 24,14), gratitudine verso Dio (Ecclesiaste 2,24ss).
     Il contrario è l’affanno e il tormento, dovuti spesso a un rapporto falsato verso la realtà (se stessi, Dio, il mondo, i beni materiali, le persone). Non a caso lo stesso Giobbe confessò in un momento di grande prova esistenziale: «Non trovo posa, né requie, né pace, il tormento è continuo!» (Giobbe 3,26). Inoltre alcuni passano la vita a raccogliere e ad accumulare ricchezze, per lasciar poi tutto improvvisamente e magari a eredi, che non saranno neppure saggi né grati (cfr. Ec 2,19.21.26). Geremia diceva: «Chi acquista ricchezze, ma non con giustizia, è come la pernice che cova uova che non ha fatte; nel bel mezzo dei suoi giorni egli deve lasciarle, e quando arriva la sua fine, non è che uno stolto» (Ger 17,11). La sapienza d’Israele affermava: «Ciò che fa ricchi è la benedizione dell’Eterno, e il tormento che uno si dà non le aggiunge nulla» (Pr 10,22).

     Abbiamo tutti bisogno d’equilibrio: Ben scriveva Salomone: «Per tutto c’è il suo tempo, c’è il suo momento per ogni cosa sotto il cielo: un tempo per [questo]… e un tempo per [quello]... Ho riconosciuto che non c’è nulla di meglio per loro del rallegrarsi e del procurarsi del benessere durante la loro vita; ma che se uno mangia, beve e gode del benessere in mezzo a tutto il suo lavoro, è un dono di Dio» (Ecclesiaste 3,1s.12s). […]

IL RESTO DELLO SCRITTO SEGUE SUL SITO
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      [1].       Per l’approfondimento cfr. in Nicola Martella, Šabbât (Punto°A°Croce, Roma 1999), gli articoli: «Il sabato nel Nuovo Testamento», pp. 36-45; «Questioni intorno al sabato ebraico», pp. 46-50; «La questione della legge», pp. 51-56; «La questione della domenica», pp. 57-69.

giovedì 23 aprile 2015

Bilanci esistenziali



BILANCI ESISTENZIALI

Perdita: «Mi manca dolorosamente ciò, che tu mi hai tolto, o Dio. Ma io non mi sollevo più contro di te. Piango ancora, ma sento che divento sempre più calmo. Può darsi che rimanga ancora ferito, eppure credo che un giorno passerò oltre il lamento» (Sabine Naegeli).

Ogni tanto siamo chiamati a fare i nostri bilanci esistenziali, al più tardi quando la vita ci fa nuovamente lo sgambetto, usando magari qualcuno, quando finiamo a gambe all’aria e cadiamo intronati a terra, delusi e disillusi, feriti e doloranti. Quando tutto sembrava andare a gonfie vele, ecco che si capovolge la barca! 

A volte, ci sembra che questa vita pretendi troppo da noi, essendo piena di delusioni, dolori e questioni irrisolte. Infatti, prima o poi, arriviamo al punto, che dobbiamo constatare: «Eccomi nuovamente a mani vuote!». Oppure: «Eccomi nuovamente abbandonato da tutti!». E ancora: «Eccomi che sono arrivato nuovamente alla frutta!».
     A volte, ci sembra che Dio stesso pretendi troppo da noi, accollandoci pesi, che riteniamo insopportabili, e mettendoci nel crogiolo della prova, che riteniamo troppo eccessiva. Allora ci scopriamo vulnerabili come Giobbe, specialmente quando sono proprio i comuni «amici» a girarci come un calzino e ad accanirsi contro di noi, cercando colpe tra le pieghe della nostra esistenza, vere o presunte che siano. Allora, come con Davide, proprio colui, che sedeva alla tavola con noi, alza il suo calcagno contro di noi (Sal 41,9; cfr. Gb 19,19). Allora proprio il Dio fidato, tacendo a lungo, ci sembra che sia anch’Egli contro di noi, come aveva l’impressione Giobbe (Gb 6,4; 16,9; 19,11); oppure, perlomeno, ci sembra che Dio ci abbia abbandonato e non si curi di noi, come pensava Davide (Sal 22,1s). Appunto, tutto ci sembra così, sebbene Dio non sia lontano da noi e sia già lungamente all’opera, ma a modo suo! [...]

LO SCRITTO COMPLETO SI TROVA SUL SITO…
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martedì 21 aprile 2015

La vergine ed Emanuele in Matteo 1,23



LA VERGINE ED EMANUELE IN MATTEO 1,23

UN LETTORE MI HA COMUNICATO QUANTO SEGUE: Caro Nicola, in Internet sono stato coinvolto in un’accesa discussione su Matteo 1,23, su cui vengono affermate cose così contrastanti. Potresti spiegarmi in modo più esegetico questo brano? {Giovanni Mele, Canada; 17-04-2015}

AD ASPETTI RILEVANTI DI TALI QUESTIONI RISPONDO COME SEGUE: Cominciamo con la traduzione letterale di Matteo 1,23 dal greco: «“Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, ed essi chiameranno il suo nome Emanuele”, che, tradotto, è: “Dio con noi”». 

Si noti che Matteo non citò il testo ebraico di Isaia 7,14, ma il testo greco dell’AT, ma con delle differenze. Isaia 7,14 recita in greco kaléseis «chiamerà» (fut. ind. att. 2a sing.); mentre Matteo 1,23 ha qui kalésūsin «chiameranno». Ciò mostra che Matteo citò l’AT a senso, applicando tale verso alla situazione di Giuseppe e di Maria. Infatti, a quel tempo spettava al marito di dare il nome o, almeno, a entrambi. L’angelo ingiunse a Giuseppe quanto segue: «Ella partorirà un figlio, e tu gli porrai nome Gesù» (Mt 1,21). E inoltre è scritto che Giuseppe «non ebbe con lei rapporti coniugali, finché ella non ebbe partorito un figlio; e gli pose nome Gesù» (v. 25).
     Una parthénos «vergine» era fanciulla pronta per il matrimonio, che non aveva avuto alcun rapporto sessuale con un uomo. Rebecca era «vergine e nessun uomo l’aveva [intimamente] conosciuta» (Gn 24,16). Maria era «una vergine fidanzata a un uomo chiamato Giuseppe» (Lc 1,27). Quando l’angelo le annunciò, che avrebbe partorito il Messia, ella gli disse: «Come avverrà questo, poiché non conosco [intimamente] un uomo?» (v. 34). L’angelo le parlò dell’intervento dello Spirito Santo in lei (v. 35).
     «Emanuele»... [...]

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venerdì 17 aprile 2015

Convivere con la fibromialgia



CONVIVERE CON LA FIBROMIALGIA

1. ENTRIAMO IN TEMA (Nicola Martella): Ero venuto a sapere di questa grave patologia, di cui è questa credente. Mi aveva confidato che erano già 14 anni che le avevano diagnosticato la fibromialgia. Mi accennò all’incubo, che aveva sofferto. Tuttavia, mi confidava di aver visto la mano di Dio nel fatto che era stata guidata in modo giusto nel cammino, che doveva fare. Anche i medici avevano ricevuto da Dio la saggezza necessaria, per curarla adeguatamente. Oltre a raggiungere una qualità di vita accettabile, ella fece della necessità una virtù; e questo non solo per sé, poiché a tutt’oggi può aiutare altri pazienti a convivere con questa «parente» acquisita. Mi accennava anche ai «gruppi di dialogo» autogestiti e mi confidava che essi sono la migliore terapia. 
      Avevo dinanzi a me una cara credente locale, che da tanti anni era affetta da una misteriosa patologia, che cambiava continuamente nome e connotazione... finché ottenne la designazione giusta: fibromialgia. Posso immaginarmi il suo travaglio di essere considerata da alcuni come una specie di «malato immaginario». Alla mattina poteva stare alle stelle, la sera poteva cadere alle stalle. Un giorno in un modo, il prossimo al contrario. Mi fermo qui, sperando di poter sentire la sua testimonianza dalla sua stessa bocca, dopo che avrà letto la seguente.
     Parlai ad Elvira di questa nostra sorella locale e delle sue difficoltà. La incoraggiai a scrivere una sua testimonianza, consapevole che essa avrebbe potuto aiutare lei e altre persone afflitte da tale male oscuro. Eccola qui di seguito...


2. LA TESTIMONIANZA (Elvira Giglio, ps.): Per anni ho sofferto la cosi detta «sindrome della segretaria»: infiammazioni continue in braccia, mano, dita, spalle e collo, accompagnate da terapia quasi in abbonamento. Erano dolori tali, da paralizzarmi il braccio sinistro dal ditino al collo: il colmo per una mancina! E lavoravo, lavoravo, lavoravo...
     In quel periodo che durò 7 anni, sopportai delle situazioni di stress, che si accumulavano (lavoro, formazione professionale, ricerca di un altro lavoro, costruzione della casa, problemi di famiglia).
     La mia salute peggiorò al punto che il medico mi dichiarò incapace di lavorare. All’appuntamento successivo, il medico mi disse: «Lei soffre di fibromialgia». Contemporaneamente il fisioterapista mi disse la stessa cosa. Io caddi dalle nuvole! Ero sollevata dal fatto di avere finalmente un nome, con cui chiamare i miei dolori, ma poi mi cadde un martello sulla testa, quando appresi che si trattava di una malattia incurabile. Mi senti come i malati di HIV, che hanno un virus dentro di sé, che non possono mai togliere. Andai a cercare su Internet tutte le informazioni in merito: quello che leggevo corrispondeva a quello, che vivevo io!
     Da li iniziò il calvario! [...]

IL RESTO DELLO SCRITTO SEGUE SUL SITO
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mercoledì 15 aprile 2015

La prospettiva escatologica dell’amore

LA PROSPETTIVA ESCATOLOGICA DELL’AMORE

 
In 1 Pietro 4,7s (vedi immagine) l’autore tracciò la prospettiva escatologica. Salta all’occhio che usò qui due imperativi all’aoristo, indicando così l’azione conclusa di volta in volta, in vista dell’obiettivo. Egli ingiunse l’autocontrollo e la sobrietà, quali premesse per esercitare preghiere efficaci. È probabile che con l’espressione «in vista delle preghiere» intendesse l’esaudimento delle stesse. Infatti, nel capitolo precedente l’autore avvertiva i credenti uomini che il loro comportamento onorevole o meno verso le mogli decideva sul fatto, se le loro preghiere sarebbero state ascoltate o impedite (1 Pt 3,7).
     Poi, su tale scenario escatologico, a cui ci si prepara in tale modo, Pietro indicò la medicina per affrontare gli eventi futuri: oltre alla preghiera, l’amore reciproco espansivo. L’amore è la ricerca del bene degli altri, che qui sono i fratelli; per le qualità di tale amore fraterno rimandiamo a 1 Corinzi 13 (cfr. anche Rm 12,10). Egli qualificò tale amore come «espansivo, estensivo». Pietro parlò altrove nella sua epistola (1 Pt 1,22) di tale amore fraterno, definendolo non-ipocrita; e raccomandò di amare dal cuore e in modo espansivo. Tale amore, che si espande verso gli altri fratelli, si estende a ogni aspetto della relazione fraterna.
     Quando l’amore fraterno ha queste qualità, esso non è interessato a mettere in pubblico (o alla berlina) le debolezze altrui, ma al contrario tende a fare ciò che il verbo greco esprime: «nascondere, velare, coprire» una gran quantità di peccati, per impedirne la conoscenza ad altri (cfr. l’espressione «nasconderà una moltitudine di peccati» in Gcm 5,20). Il peccato degli altri è considerato come una nudità, che non bisogna esporre a terzi, ma che bisogna prontamente velare (cfr. il cattivo comportamento di Cam e quello corretto di Sem e Jafet verso Noè in Gn 9,22s).
     Dove si realizza quanto detto da Pietro, si è ben equipaggiati per la fine dei tempi.

Lo scritto completo (anche dei termini greci) si trova sul sito
     [CONTINUA LA LETTURA: http://diakrisis.altervista.org/_Cres/T1-Escat_amo_Esc.htm] SOLO DOPO AVER LETTO L’INTERO SCRITTO SUL SITO, voi che rispondereste nel merito alle questioni in esso contenute?
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lunedì 13 aprile 2015

Tentazione e prova secondo Matteo 6,13



TENTAZIONE E PROVA SECONDO MATTEO 6,13

1.  L’ANALISI DEL TESTO: Il seguente approfondimento e nato da una domanda di un lettore e dal dialogo, che ne è sorto.

1.1.  NON CONDURCI NELLA TENTAZIONE
Stefano Meola: Nicola, ho una domanda circa la corretta traduzione del «Padre nostro», nel punto, in cui si afferma: «Non indurci in tentazione». Che cosa afferma veramente? Ho provato a tradurre dall’inglese, ma mi risulta comunque la stessa cosa: «Non indurci in tentazione». È così anche dal greco «originale»? {08-04-2015}

Nicola Martella: Il testo greco recita così: καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν [trasl. kaì mḕ eisenénkēs eis peirasmón]; esso significa letteralmente quanto segue: «e che tu non ci porti nella [non ci conduci dentro la] tentazione [o prova]» (Mt 6,13). Tale verbo eisenénkēs è aor. cong. att. e intende la possibilità, non la realtà; non è un comando, ma una richiesta; non intende un’azione costante, ma l’evento unico, che cambia le cose per sempre (aoristo). Il termine peirasmós significa «prova, verifica, tentazione». Per i dodici discepoli tale richiesta mirava alla grande crisi, che sarebbe avvenuta con la crocifissione di Gesù. Giuda non superò tale prova, tradendo Gesù e poi mettendo fine alla sua propria vita, Pietro rinnegò il suo Maestro e i discepoli si dispersero.

1.2.  MA LIBERACI DAL MALIGNO! [sul sito]
2.  ALCUNI APPROFONDIMENTI [sul sito]
3.  LA TENTAZIONE DEGLI SPIRITUALI [sul sito]

[CONTINUA LA LETTURA: http://puntoacroce.altervista.org/_BB/A1-Tent_prova_Mt.htm] SOLO DOPO AVER LETTO L’INTERO SCRITTO SUL SITO, voi che rispondereste nel merito alle questioni in esso contenute?
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giovedì 9 aprile 2015

Figli quale onore e onere per i genitori



FIGLI QUALE ONORE E ONERE PER I GENITORI



I figli sono visti nella Bibbia come motivo d’onore per i genitori, visto che proseguivano la stirpe di famiglia ed erano l’assicurazione di una vecchiaia tranquilla. Certamente la sterilità era un grande problema personale, familiare e sociale (a ciò si doveva anche la poligamia). Chi aveva un grande clan, aveva le spalle coperte nella società; perciò i figli e la prole erano un motivo di sicurezza anche al presente.
     I figli erano visti anche come un onere, ossia una responsabilità dei genitori. Essi col loro comportamento portavano onore o disonore alla famiglia, fama o infamia, gioia o sofferenza. I comandamenti della Torà e i libri sapienziale (Pr, Ec) sono pieni di brani che trattano la dinamica genitori-figli, illustrano le problematiche fra di loro e danno consigli da parte dei genitori per i figli, particolarmente del padre verso il figlio maschio, visto che in quella società rappresentava l’elemento più a rischio. Si parla di figli stolti, di disciplina, dei rischi che vengono per il giovane da parte della donna estranea (prostituta) e dell’adultera e così via.
     Anche nel NT ricorrono per i credenti precetti morali per genitori e figli (cfr. Ef 6,1-4; Col 3,20s; cfr. anche 1 Gv 2,14).
     Come può la Bibbia essere una bussola per orientare genitori e figli, gli uni e gli altri timorati di Dio, in rapporti sani, giusti e pieni di benedizione? Quali genitori e figli hanno fallito nel loro compito, secondo la narrazione biblica?

Sul sito seguono i contributi dei lettori e le mie eventuali osservazioni…
     [CONTINUA LA LETTURA: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Figli_onore_onere_Ori.htm] SOLO DOPO AVER LETTO L’INTERO SCRITTO SUL SITO, voi che rispondereste nel merito alle questioni in esso contenute?
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martedì 7 aprile 2015

La Bibbia insegna il vegetarianismo?



LA BIBBIA INSEGNA IL VEGETARIANISMO?

1. ENTRIAMO IN TEMA: Massimo Salani, docente di religione cattolica, molto interessato all’alimentazione nelle religioni, mi ha chiesto informazioni sulla prassi delle denominazioni protestanti, specialmente sulla prassi alimentare della Chiesa Battista. Personalmente sono un esegeta e, quindi, anche se fossi un esponente della Chiesa Battista, non sarei comunque interessato ad aspetti confessionali sul tema delle regole alimentari.
     [...] Chiunque faccia un’attenta analisi scritturale puramente esegetica e senza preconcetti ideologici, deve necessariamente concludere che né la teocrazia d’Israele, né il giudaismo intertestamentario, né Gesù, né il cristianesimo apostolico conoscevano o insegnavano il vegetarianismo. Questa è una dottrina estranea a tale sfera culturale e religiosa. Infatti, il vegetarianismo deriva dall’induismo e dal buddismo (religioni dell’India).
 

2. NELLA STORIA PRIMORDIALE: [sul sito]
3. NEL RESTO DELL’ANTICO TESTAMENTO: [sul sito]
4. AI TEMPI DI GESÙ: [sul sito]

5. NELL’EPOCA APOSTOLICA: Dio non si fece scrupoli a mostrare a Pietro in visione animali (addirittura impuri) e a comandargli: «Lèvati, Pietro; ammazza e mangia» (At 10,13; 11,7).
     Durante il Concilio di Gerusalemme, non fu posto un divieto a mangiare carne, ma furono date alcune regole salutiste: i cristiani gentili dovevano astenersi «dalle cose sacrificate agli idoli, dal sangue, dalle cose soffocate» (At 15,29).
     L’apostolo Paolo menzionò come cosa scontata che i cristiani mangiassero carne e andassero al mercato per comprarne; interpellato, diede questa ingiunzione: «Mangiate di tutto quello che si vende al macello senza fare inchieste per motivo di coscienza. […] Se qualcuno dei non credenti v’invita, e voi volete andarci, mangiate di tutto quello che vi è posto davanti, senza fare inchieste per motivo di coscienza» (1 Cor 10,25.27). L’importante era mangiare «di una cosa con rendimento di grazie» (v. 30). Inoltre, «tutto quello, che Dio ha creato, è buono, e nulla è da riprovare, se usato con rendimento di grazie; perché è santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera» (1 Tm 4,4s).

6. IL CASO SPECIFICO DELLE CULTURE DIFFERENTI: [sul sito]

7. PRINCIPI DERIVATI PER ONNIVORI E VEGETARIANI: Sebbene al tempo del NT la questione fra onnivori e vegetariani non si poneva, ma solo fra due specie di onnivori, penso che il principio di Paolo, che lui pose all’inizio di tale trattazione, possa valere anche qui: «L’uno crede di poter mangiare di tutto, mentre l’altro, che è debole, mangia legumi. Colui, che mangia di tutto, non disprezzi colui, che non mangia di tutto; e colui, che non mangia di tutto, non giudichi colui, che mangia di tutto: perché Dio l’ha accolto» (Rm 14,2s).
     Il «forte» (chi mangia di tutto) sviluppa spesso una certa arroganza, con cui considera singolare la scelta del «debole» e, con sufficienza e insensibilità, lo disprezza (cfr. vv. 15s.20); raramente però fa della sua dieta alimentare un’ideologia filosofica o religiosa. Dall’altra parte, uno dei problemi nasce laddove il «debole» (chi non mangia di tutto) fa della sua scelta non solo uno stile di vita personale, ma una militanza ideologica e una strumentalizzazione «purista», rivestita di elementi filosofici o religiosi, da far valere in modo massimalista contro gli altri. Proprio i «deboli» possono sviluppare, per contrappasso, uno spirito di superiorità e, quindi un «fondamentalismo» tale da considerare i cristiani onnivori non proprio degni del regno di Dio. Per questo Paolo insistette nel dire: «Dio l’ha accolto». Egli mostrò che gli accenti del nuovo patto stanno altrove: «Il regno di Dio non consiste in vivanda né in bevanda, ma è giustizia, pace e allegrezza nello Spirito Santo… Non disfare, per un cibo, l’opera di Dio» (vv. 17.20).

8. CONCESSIONE E CONSUMISMO: [sul sito]

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venerdì 3 aprile 2015

Leggi di purità alimentare



LEGGI DI PURITÀ ALIMENTARE

Le questioni poste dal lettore ci portano qui ad affrontare vari argomenti: le leggi mosaiche sulla purità alimentare, le norme igieniche e salutiste, la distinzione fra animali puri e impuri, il consumismo odierno, il costume di mangiare gli agnelli a Pasqua, il bisogno di una dieta equilibrata e di norme salutiste oggi.

UN LETTORE MI HA SCRITTO QUANTO SEGUE: Caro Nicola, ho alcune domande da porti. Leggevo la lista degli animali puri e impuri, riferita al popolo d’Israele (Dt 14). So, che noi facenti parte del nuovo patto siamo al di fuori di quelle prescrizioni. Mi chiedevo però, se in quelle proibizioni ci fossero delle motivazioni, che il Dio creatore di tutto, nella sua onniscienza, voleva far intendere agli uomini tutti. Per esempio, mangiare animali morti da sé (ammalati, non sani) può comportare della patologie, degli effetti collaterali sulla nostra salute. Altri tipi di animali probabilmente non producono proprietà benefiche, ma possono invece risultare dannosi per il nostro organismo. Se ciò non fosse, perché c’è stata una selezione di questi animali? Su quali metri di riferimento?
     Un’altra cosa: a Pasqua è tradizione mangiare gli agnelli. Bene, o forse è meglio dire male, vista la mole di giovani bestie che vengono uccise crudelmente, spesso senza il rispetto dei canoni di tutela degli animali, nelle uccisioni. Ho visto dei video assurdi che mi portano, per solidarietà, a non consumare l’agnello a Pasqua e in generale a cercare un maggiore equilibrio nella dieta, per quei motivi espressi sopra. È vero che abbiamo il dominio su ogni creatura e il permesso di cibarsi di tutto, ma in questi tempi, dove ogni aspetto viene esasperato agli estremi, non si diventa forse complici del meccanismo diabolico nel consumismo egoistico, che non bada alle regole e al buon senso civile? {Andrea Angeloni; 31-03-2015}
 

AD ASPETTI RILEVANTI DI TALI QUESTIONI RISPONDO COME SEGUE: La distinzione fra animali puri e impuri mirava alla salute del popolo d’Israele, che non doveva vivere nel nord dell’Europa, negli Stati Uniti o nel Canada, ma nella Palestina quale sua terra promessa. È chiaro che tali norme rispecchiassero sia la latitudine di Canaan, sia gli animali ivi ricorrenti, sia la situazione culturale e religiosa del Medio Oriente, contro il cui paganesimo la legge mosaica era estremamente avversa.
     Semplificando, possiamo dire, che gli animali puri sono in genere erbivori, quelli impuri sono carnivori; i primo stanno all’inizio della catena alimentare, i secondi alla fine. Gli animali carnivori mangiano in genere gli animali più deboli, vecchi e malati, che sono più facilmente abbordabili; in tempi di magra, essi mangiano anche i cadaveri, che trovano. Alcuni animali si cibano solo di cadaveri (p.es. avvoltoi). Sono esclusi anche animali onnivori (p.es. maiali), gli animali erbivori non ruminanti, gli animali acquatici, che filtrano l’acqua, e gli animali acquatici che stanno in alto nella catena alimentare (p.es. mammiferi, carnivori) o si cibano di cadaveri. Quindi, gli animali carnivori e onnivori e quelli che filtrano l’acqua possono essere veicoli per malattie infettive. Qui non vogliamo scendere troppo nei particolari. Si noti comunque anche che diverse norme non seguivano prettamente criteri salutisti, ma erano spesso formulate in antitesi alle pratiche religiose dei pagani (cfr. Ez 20,25). [...]

[CONTINUA LA LETTURA: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Pur_aliment_MT_AT.htm] SOLO DOPO AVER LETTO L’INTERO SCRITTO SUL SITO, voi che rispondereste nel merito alle questioni in esso contenute?
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